Tutti a scuola di andalú ovvero “Per non rimanere fuori dal coro”


Se una cosa c’è del mio Erasmus di cui sono fermamente convinto è che, senza mezzi termini, ho azzeccato meta  e soprattutto lingua-ponte. La Spagna, infatti, oltre a presentare qualche buono (e personalissimo) spunto di formazione professionale di cui magari parleremo in un’altra occasione, presenta un apprezzabile aspetto linguistico: l’idioma appare facile, musicale e intuitivo – per un latino, beninteso. E aggiungiamoci pure che la conoscenza del castigliano apre non solo al mercato del lavoro iberico (che attualmente, mi si dirà, non è il massimo della sicurezza per un giovane), ma anche a quello sudamericano. E che magari gli ispanofoni sono circa 330 milioni in tutto il mondo. Orbene, señores, il piatto è completo per rendere, se volete, ancora più appetitosa la scelta.

E questo, in realtà, è un pensiero comune ad una buona parte dell’alumnado italiano (perdonerete lo spagnolismo) in partenza per l’Erasmus, che decide per mete pittoresche del sud della Spagna come Córdoba, Sevilla o Granada proprio perché condivide quanto detto sull’aspetto linguistico. Almeno fintanto che non fa i primi conti con l’andaluso.

Sì. Perché el andalú è una sfumatura del castigliano sporca e distorta più del blues di Chicago, che suppone un gioco tra lingua e palato che quasi incolla la prima al secondo, storcendo e trasformando di sana pianta – e senza troppo rigor di logica – circa una parola ogni tre. Frasi d’una semplicità piuttosto elementare, come “Para que la salsa carbonara quede más gustosa, tienes que ponerle más huevos batidos”, si trasformano in scioglilingua sincopati e incomprensibili, zeppi di suoni iperconsonantici e di vocali tremendamente cantilenate: “Pá que la sarsa carvonara quede má guzzosa, tiene’ que ponerle má huevo’ batío“. Intenderete bene che, a tal punto, espressioni del genere non hanno il solo effetto di rimbecillire lo studente italiano – magari appena giunto nella capital e con minima infarinatura di castigliano alle spalle -, ma addirittura qualsiasi straniero, relegandolo ai margini del coro, quasi fosse un musicista fuori tempo. Perciò, le soluzioni sono due: o non capire i nativi o ragionare come loro. Continua a leggere